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giovedì 7 marzo 2013

Tra decrescita dolce e decrescita amara


In questi ultimi giorni nel dibattito politico si è introdotto, non troppo furtivamente, un nuovo termine, che porta con sé un certo armamentario concettuale e culturale: la decrescita "dolce", denominata anche come decrescita "felice"


Di questo concetto, pur onorevolmente presente nel contesto internazionale (oltre che in quello nazionale: si veda in Italia il Movimento Decrescita Felice, e Decrescita Felice Social Network), non c'era traccia nel dibattito politico ufficiale italiano.
La situazione è cambiata con l'imposizione elettorale di Beppe Grillo. In verità, anche all'interno del Movimento 5 Stelle, il concetto è stato assorbito in modo confuso (come è accaduto per parecchie contaminazioni culturali operate dai grillini, o meglio, dal loro ideologo Beppe), venendo associato, a seconda dei casi, con l'uscita dalla moneta unica, con il taglio della spesa pubblica, con le tensioni ecologiste, con il "nessuno resti indietro", con un generico attivismo e/o pratagonismo del singolo scevro da meccanismi di mediazione istituzionale (dove "istituzione" finisce per essere spesso assimilata a "mercato").
Ma esattamente di che si tratta?
Citando Wikipedia (che non è certo scientifica, ma può essere usata come strumento di primo orientamento):

Il movimento [della Decrescita Felice], chiaramente ispirato alla decrescita teorizzata da Nicholas Georgescu-Roegen, fondatore della bioeconomia, ed in linea con il pensiero di Serge Latouche, parte dal presupposto che la correlazione tra crescita economica e benessere non sia necessariamente positiva, ma che esistano situazioni frequenti in cui ad un aumento del Prodotto interno lordo (PIL) si riscontra una diminuzione della qualità della vita.
[...]
I sostenitori del MDF ritengono che vi siano casi piuttosto frequenti in cui attraverso processi di autoconsumo, di risparmio energetico e di relazioni di scambio che non transitino necessariamente per il mercato, si verifichi un incremento della qualità della vita materiale associata ad una diminuzione del PIL. Viene auspicato quindi l'aumento del benessere riducendo il PIL tramite autosufficienza e produzione in proprio. Un esempio classico in seno alle scienze economiche è quello paradigmatico dell'economia contadina.
Latouche, in effetti, è uno dei primi teorici della c.d. Decrescita, ovvero di una "una corrente di pensiero politico, economico e sociale favorevole alla riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi, con l'obiettivo di stabilire relazioni di equilibrio ecologico fra l'uomo e la natura, nonché di equità fra gli esseri umani stessi".
Approfondendo un po' si avverte facilmente che quello di cui si sta parlando è un universo teorico-concettuale estremamente complesso, che vorrebbe modificare radicalmente il paradigma occidentale di sviluppo e di economia, per una riconversione straordinariamente pregnante e divergente.
Insomma, si tratta di una questione seria.
Detto ciò, allora, il fastidio che si prova nel sentire parlare per slogan di "decrescita" i protagonisti attuali (siano essi i rappresentanti del PD, siano essi il rappresentante - al singolare democratico- del Movimento 5 stelle) diviene immediatamente ribrezzo: ribrezzo per la immediata banalizzazione che qualunque prospettiva finisce per subire allorquando diviene tema di discussione "elettorale" o "post elettorale".
Ma è mai possibile che un partito "serio", dovo aver dibattuto per mesi di sviluppo e di crescita, affannandosi a capire se era meglio agire sulla "domanda" o sull'"offerta", per il semplice fatto (oddio, semplice forse non è il termine giusto) che un avversario politico (Grillo) ha avuto il 25% dei consensi elettorali, comincia ad usare e far circolare il termine "decrescita", quasi che il fatto che il PIL diminuisca non sia più necessariamente un problema?
Ed intanto, girando per le strade (di Napoli e di Roma, le strade in cui giro io in questo periodo), si vedono le facce spente dei giovani e dei "meno giovani" che passano il loro tempo "passeggiando" perché non hanno lavoro, le facce preoccupate dei "padri" e delle "madri" che non sanno come garantire i loro figli, sia che si tratti di garantire la "cena di stasera", sia che si tratti di occuparsi del "lavoro di domani".
La decrescita, cari signori, c'è già. 
Ma non è affatto felice, e men che meno dolce.
Le teorie dell'autoproduzione, dello scambio solidale, del baratto eco-sostenibile, si possono testare in un periodo di ricchezza: debbono eventualmente essere una scelta, non una necessità.
In caso contrario (ed è, purtroppo il nostro caso) la decrescita è molto amara, e anche infelice, quasi rabbiosa.
Una decrescita che crea rabbia e che spiega, senza troppi arzigogoli, perché il Movimento 5 Stelle ha avuto il 25% dei voti.


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