Affidare una organizzazione ad un gruppo di top-menager che non hanno caratteristiche omogenee tra di loro, ovvero di gente molto diversa per cultura, estrazione, provenienza, è una buona o una cattiva idea?
Da un lato, si potrebbe ipotizzare che una diversità di questo tipo generi conflitti, incomprensioni, divergenze e fratture nella leadership strategica dell'azienda, con il rischio di una sostanziale ingovernabilità dei processi.
Dall'altra, si potrebbe supporre che, di contro, la "diversità" sia un fattore chiave del successo, e che la stessa consenta all'organizzazione di raggiungere una prospettiva strategica più ampia, proprio grazie alla pluralità di backgrounds dei manager, alla contaminazione tra esperienze diversificate, all'assenza di un pensiero unico, di un main-thinking che, ove si avventurasse per un sentiero non corretto, non avrebbe alcun momento dialettico di confronto.
Il dubbio è legittimo.
All'interrogativo posto ha risposto, almeno parzialmente, una ricerca condotta da Thomas Barta, Markus Kleiner, e Tilo Neumann e pubblicata sul McKinsey Quarterly.
Partendo dall'assunto che le organizzazioni che danno valore alla "diversità" sono quelle di maggior successo, i ricercatori hanno esaminato la composizione dei consigli di amministrazione, indagando una correlazione con il ROE delle società e con il loro margine operativo (più precisamente con l'EBIT).
Il panel di ricerca ha incluso 180 società quotate in Francia, Germania, UK e USA e le loro performance economiche nel periodo 2008-2010.
Inoltre, al fine di quantificare il "tasso di diversità" presente nei consigli di amministrazione, la ricerca si è concentrata su due tipologie di informazione suscettibili di misurazione oggettiva: la presenza di donne e la presenza di stranieri nel team dei senior-manager.
Ebbene, i risultati sono stati confortanti le società che si collocano nel quartile più alto della scala relativa alla "diversità" hanno registrato un ROE mediamente più alto del 53% rispetto alle società che si collocano nel quartile più basso. Uguale trend si riscontra in relazione all'EBIT, con un valore più alto del 14%.
Il risultato, poi, pare confermato anche attraverso alcuni stress test di verifica, eseguiti su sub-set nazionali (ad esempio le società tedesche), nonché esaminando la relazione tra le performance economiche e la diversità di genere o la diversità di nazionalità considerate separatamente.
Ovviamente (e lo riconoscono gli stessi ricercatori), queste correlazioni non possono essere assunte al valore di prova assoluta. Nondimeno, alcuni case study condotti su singole società che si collocano nella parte alta delle due graduatorie (della diversità e delle performance economica), indicano che queste aziende hanno effettivamente basato il proprio successo sulla promozione della diversità, sia di genere (per esempio con una massiccia introduzione di manager donne), sia geografica (attraverso joint ventures e partenariati con aziende straniere).
Si tratta di uno spunto di riflessione estremamente interessante, soprattutto in un contesto imprenditoriale, come quello italiano, in cui sussiste ancora una forte componente familiare della gestione che, da un lato, produce una impostazione strategica monolitica ed incontestabile (se l'ha detto il padre-padrone, nessun componente del senior-team -tipicamente figli, cugini e nipoti - può e vuole contestare) e, dall'altra, rende le aziende particolarmente fragili ed incapaci di affrontare stress organizzativi significativi, tipici del momento del necessario ricambio generazionale (il padre-padrone, prima o poi, dovrà pure andare in pensione...).
Non pare peregrino, quindi, suggerire uno sforzo di rottura delle logiche dominanti, aprendo i consigli di amministrazione a soggetti diversi ed estranei ai clan familiari, meglio ancora se tale rottura viene operata a favore di professionisti e manager "diversi" per genere (donne), orientamento (religioso, sessuale...) e nazionalità.
Un mondo a colori è più bello di un mondo monocromo e questo principio, pare, vale anche negli affari.
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