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giovedì 8 novembre 2012

I servizi pubblici e gli obblighi occulti di privatizzazione



Nel nostro Paese, ormai da molto tempo, si sta consumando una lotta paradossale tra il Legislatore (figura sempre più anonima e non rappresentativa) ed i cittadini: la lotta, per essere chiari ed entrare subito nel merito, tra il Legislatore che, preso da una sacra infatuazione liberista, vuole imporre la privatizzazione dei servizi pubblici locali (leggi: la vendita a privati delle società pubbliche che oggi erogano questi servizi) ed i cittadini che, presi da un altrettanto sacro fuoco del "bene comune", vogliono assolutamente che i servizi pubblici locali (e soprattutto il servizio idrico) siano saldamente e durevolmente affidati alla gestione degli enti pubblici.
Sulla materia del contendere non c'è molto da dire: si tratta di due posizioni che paiono entrambe ideologiche, potendosi piuttosto ritenere che il giusto mezzo andrebbe ricercato nella possibilità delle singole amministrazioni locali (che rappresentano, o dovrebbero, il proprio territorio e la propria comunità) di scegliere come comportarsi, rimanendo la privatizzazione una possibilità, così come una possibilità dovrebbe rimanere quella di mantenere la gestione pubblica (a patto sia quantomeno equivalente dal punto di vista economico).
La storia del conflitto, d'altro canto, è nota e sembrerebbe ormai stabilmente volta alla vittoria del "bene comune": tralasciando i dettagli, nel 2008 la norma interviene imponendo l'affidamento tramite gara ed impedendo gli affidamenti diretti a società totalmente pubbliche; dopo una lunga campagna referendaria, nel 2011 questa norma (il mitico articolo 23 bis) viene abrogata dal voto popolare, spinto dalla preoccupazione per l'acqua pubblica, ma riguardante tutti i servizi pubblici locali; il legislatore interviene nuovamente riproponendo nella sostanza la medesima disciplina previgente al risultato referendario (escludendo, però, il servizio idrico); viene adita la Corte Costituzionale che dichiara incostituzionale il secondo intervento legislativo, violando lo stesso la volontà popolare acclarata nel 2011.
Bene. La partita sembrerebbe chiusa. Ma non è così.
Nel frattempo, infatti, il Governo è passato ad occuparsi di un'altra categoria di società pubbliche, quelle che erogano (attraverso affidamenti diretti) i cosiddetti servizi strumentali, ovvero quei servizi che non sono erogati a favore dei cittadini (come il trasporto pubblico, il servizio idrico e simili), ma che sono collegati solo al funzionamento della macchina amministrativa.
In questo campo, ci si va giù duro: se le società controllate dagli enti locali hanno registrato nel 2011 un fatturato formato per almeno il 90% da commesse pubbliche (nota bene: indipendentemente se tale fatturato discenda da un affidamento diretto o da un affidamento tramite gara), debbono essere vendute a privati o sciolte entro il 31 dicembre 2013.
A prima vista, questo obbligo (anch'esso -a mio parere- incostituzionale, perché viola il principio di auto-organizzazione degli enti territoriali), non si applicherebbe alle società che erogano servizi pubblici locali, e tanto dal momento che l'obbligo di sbarazzarsi delle società non sussiste nel caso in cui le stesse operano nel settore dei servizi di "interesse generale".
Vero. Ma la storia non è tutta qui.
Il comma 8 del medesimo articolo 4 della Spending Review (DL 95/2012) in cui si trovano le previsioni appena ricordate, infatti, stabilisce, ai fini della tutela della concorrenza (e qui il legislatore si è parato circa l'incostituzionalità, visto che la concorrenza e materia riservata alla competenza esclusiva dello stato), stabilisce che, dal 1 gennaio 2014 gli affidamenti diretti sono possibili solo se gli stessi, oltre a rispettare i presupposti comunitari e nazionali dell'in house, hanno ad oggetto servizi di un valore inferiore ai 200 mila euro.
Questo comma (e sta qui il trucco) non riguarda in alcun modo solo i servizi strumentali, ma incide tout cour sulla possibilità degli enti appaltanti di procedere all'affidamento diretto.
La conseguenza, a rifletterci, è immediata. 
Se tu, caro Comune, hai una società che gestisce per tuo conto il servizio idrico (o il trasporto pubblico, o l'igiene urbana...), non la devi vendere o sciogliere (perché si occupa di servizi di interesse generale), ma dal 1 gennaio 2014 non puoi più fargli affidamenti superiori a 200 mila euro (e visto che 200 mila euro sono poco più del costo aziendale di 5 operai, caro comune, anche se sei piccolo piccolo e il servizio pubblico in questione è di dimensione economica modesta, sicuramente non potrai affidarglielo, perché varrà con certezza più della soglia massima consentita).
E, si badi bene, il medesimo comma 8, taglia pure la testa al toro impedendo a chi volesse "attrezzarsi" (o si fosse già "attrezzato") per tempo di raggiungere il risultato: e sì, perché è vero che sono fatti salvi gli affidamenti in essere, ma al massimo fino al 31 dicembre 2014.
Insomma, questo benedetto comma 8 riesce (forse inconsapevolmente) ad ottenere di fatto il risultato che in punto di diritto non si è riuscito ad ottenere: impedire l'affidamento diretto dei servizi pubblici locali (ivi incluso il servizio idrico) a società interamente pubbliche.
Tra l'altro, la norma è stata convertita dopo la sentenza della corte costituzionale che ha sancito l'incostituzionalità del medesimo divieto riferito esclusivamente ai servizi pubblici locali, di modo che non è possibile avventurarsi lungo l'ipotesi della disapplicazione implicita, visto che il buon Legislatore l'ha, al contrario, confermata espressamente.
In questo contesto, quindi, non resta che aspettare una nuova pronuncia della Corte Costituzionale, oppure ed in mancanza, al massimo entro il 31 dicembre 2014, non ci saranno (quasi) più società pubbliche che erogano servizi pubblici locali. Con buona pace dei referendari e dei fautori del "bene comune".
A dirla tutta, la vicenda non è affatto edificante, perché una lotta (per quanto ideologica e fantasmagorica come quella evocata all'inizio) non dovrebbe mai essere vinta facendo ricorso ai colpi bassi.


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